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Mi ha fatto molto piacere la decisione della direzione del GSS di riunire nella mia rubrica i 'punti di vista' che ho avuto occasione di scrivere negli ultimi sette anni suddivisi per tema. Sono commenti buttati giù di getto, in base alle suggestioni destate dal lavoro commentato: credo che nel loro insieme riassumano buona parte delle certezze, e ancora più dei dubbi, a cui sono arrivato in tanti anni di impegnata partecipazione alle vicende della medicina riabilitativa in Italia.

 

Non sappiamo neanche cosa sia il sapere
Metrodoro di Chio, V-IV secolo a.C.


Luci ed ombre delle tecniche diagnostiche

Silvano Boccardi
Membro Onorario Segreteria Scientifica
Gruppo di Studio Scoliosi e patologie vertebrali (GSS)


Se devi provare di essere malato, non puoi guarire. La lezione oggettiva della fibromialgia.
Lombalgia: un enigma per la sanità nel ventesimo secolo
La palpazione del movimento: è tempo di accettare l'evidenza
Effetto dell'affaticamento lombare sull'abilità di percepire una variazione di posizione lombare
Una guida per l'uso e l'interpretazione dei dati elettromiografici chinesiologici
La valutazione posturale contribuisce alla cura del paziente?


Se devi provare di essere malato, non puoi guarire. La lezione oggettiva della fibromialgia

Hadler NM. Spine 1996: 21(20); 2397-400. Fascicolo GSS 3/1997, pag. 258a

Mi piacerebbe molto sapere quale è la "specialità" del dott. Hadler, autore dell'articolo, indicato genericamente come appartenente al Dipartimento di Medicina dell'Università della North Carolina. Certo che nel suo pensiero, mirabilmente espresso, ritrovo molte delle convinzioni che sono o dovrebbero essere a fondamento del comportamento professionale del riabilitatore: la distinzione tra impairment (danno? menomazione? segno e sintomo? difficile da tradurre) e disabilita', la differenza tra essere malato e non star bene, tra curare una malattia e prendere in carico una persona che non sta bene.

Indubbiamente Hadler e' facilitato dalla ricchezza lessicale della lingua inglese, vedi l'esempio della difficile traducibilità, in italiano, di termini come impairment o disablement, o all'esistenza, per definire la malattia, di tre quasi sinonimi, ma con sfumature di grande pregnanza semantica: disease, la malattia in se stessa con il suo 'quadro clinico', illness, l'essere malato, lo stato di malattia, sickness, il sentirsi malato.

Davvero rivelatrice mi sembra l'identificazione di uno stato di vulnerabilità della persona, dinamico e diversamente rappresentato nei diversi individui, sui quali l'atteggiamento della 'medicine', e quello del medico in particolare, incide profondamente e a volte irreversibilmente. Val forse la pena di ricordare che Ivan Illic, il grande saggio, ci ammonisce da tempo che la persona che entra nell'ambulatorio di un medico vi entra con dei problemi e ne esce con una o più malattie.

La ricerca ostinata di segni e sintomi, la consegna al paziente di una serie di informazioni non facili da comprendere e da digerire (quanti pazienti vengono da noi affermando che 'hanno la cervicale'?), 1' ostinazione a voler racchiudere segni e sintomi in contenitori, in sacchetti con su una etichetta che ci serve per pronunciare una diagnosi, e in qualche caso, non frequentissimo, una conseguente terapia efficace. Per non parlare dell'ambiguità dell'etichetta: chi sarebbe, in coscienza, in grado di definire senza perplessità cosa si debba intendere veramente con una diagnosi di 'distonia' o di 'aprassia'? O dell'assoluta inutilità della formulazione di diagnosi, come la frequentissima 'lombalgia', che si limitano a fotografare, con qualche pompa ma senza nessuna utilità, quanto il paziente ci segnala. Per non parlare del potere terrificante, se non accuratamente disattivati dal curante, di certi referti, specie radiologici, che sembrano nascondere misteriosi mali, certo gravissimi e forse mortali: spondilodiscoartrosi con osteofitosi marginale di notevole entità, in un soggetto di settanta anni! E della necessita' di riempire dei sacchetti preconfezionati, che aspettano di essere colmati con casistiche di ignari individui che vengono sezionati e tartassati alla ricerca di segni che noi riteniamo non possano non essere presenti. La saga della fibromialgia evocata da Hadler e' davvero esemplare. E' difficile dimenticare la seria ricerca nella quale due gruppi di esperti, l'uno in sindromi fibromialgiche, l'altro in sindromi miofasciali, sono stati richiesti di porre la diagnosi su un unico nutrito gruppo di soggetti e non si sono trovati concordi praticamente su nessuno dei casi, tra l'altro curiosamente attribuendone il maggior numero alla competenza del gruppo avverso.

Sante parole, quelle di Hadler, che ci debbono convincere ancora di più che più importante della malattia è la persona che non sta bene: e intensificare la nostra disponibilità all'ascolto, all'empatia, al porsi dalla parte del paziente.

Vi è stata e vi è ancora una importante discussione sul fatto che debba o no esistere il 'medico placebo'. Ben venga il medico placebo se e' in grado di impedire che il proprio paziente, per ottenere ascolto, debba dimostrare di essere malato.


Lombalgia: un enigma per la sanità nel ventesimo secolo

Waddel G. Spine 1996: 21(24): 2820-5. Fascicolo GSS 3/1998, pag. 241

E' ora che anche i medici italiani si confrontino con il quesito che pervade tutto l'accorato articolo di Waddel, grande esperto del LBP, autorevolmente supportato dal lavoro di Deyo, altro grande esperto dell'argomento, pubblicato nello stesso numero di Spine: come mai, quando gli studi che dimostrano l'assurdità, non scevra di conseguenze dannose per gli individui e la comunità, del comportamento della medicina, ufficiale e non, nei confronti di questo diffusissimo problema hanno raggiunto da tempo il volume critico, si continua a prescrivere i soliti inutili e costosi esami, a comunicare al paziente le solite vaghe e spesso incomprensibili diagnosi, a praticare le solite inefficaci e costose terapie?

Non c'è dubbio che la realtà italiana penda più dal lato della situazione che Waddel descrive per gli Usa che di quella del Regno Unito: almeno di quella registrata dal National Health Service, che a quanto pare, comunque, soddisfa solo una percentuale ridotta degli utenti. E' alta anche in Italia la frequenza con cui vengono prescritti dal medico di base esami costosi, talora non innocui e raramente necessari, che producono referti troppo spesso inutilmente non rassicuranti; è di solito eccessivamente precoce l'invio allo specialista, quasi sempre ortopedico, il quale a sua volta richiederà gli esami non ancora richiesti dal medico di base; è abituale l'uso di una terminologia poco significativa, spesso poco chiara e talvolta preoccupante nella comunicazione al paziente, la cui vulnerabilità è stata ben sottolineata da Hadler in un articolo anch'esso tradotto dalla benemerita pubblicazione del GSS: spondilodiscoartrosi, disco degenerato, sublussazione vertebrale; è pressochè immediato l'invio a terapie fisiche, la cui inutilità è oramai ampiamente dimostrata e che saranno rinnovate poi sulla base di "dieci marconi due volte all'anno", anche nei casi di completa remissione della sintomatologia "a scopo preventivo"; e forse, infine, si opera ancora troppo spesso. Il tutto con una spesa altissima per la comunità, e crescente in progressione esponenziale.

Tutto questo quando in tutto il mondo si è d'accordo su quanto asseriscono le linee guida pubblicate in Usa, nel Regno Unito, in Australia, nel Canada, in Svezia. Nelle lombalgie "non specifiche", che costituiscono oltre l'80% delle forme che si presentano alla visita, quello che veramente serve è la rassicurazione psicologica del paziente, è la richiesta di un impegno ad una moderata attività fisica, sono i consigli sull'ergonomia e su un cambiamento dello stile di vita, che richiedono: una efficace opera di persuasione da parte del medico. Sono perfettamente d'accordo sulle conclusioni: è il medico di base che deve assumersi la presa in carico del paziente, offrirgli la necessaria comprensione e fare da filtro sia per la scelta degli esami che per l'invio allo specialista. Il che vuol dire offrire una soluzione corretta alla natura "biopsicosociale", come dice Waddel, del problema LBP (e se tornassimo a chiamarlo mal di schiena?).

Ed ecco il nodo di ardua soluzione: i quindici minuti in media della visita ambulatoriale del medico di base (ammesso che in Italia questa media non sia ancora più bassa, come viene fatto di ritenere in base all'esperienza quotidiana) sono sufficienti per un'operazione così onerosa in termini di impegno personale? Ma d'altra parte possiamo continuare ad accettare e a ritenere dignitoso che venti minuti di ultrasuoni ad apparecchio spento o di ionoforesi a polarità invertite, come numerose ricerche attestano, siano più efficaci di una visita del proprio medico curante?


La palpazione del movimento: è tempo di accettare l'evidenza

Troyanovich SJ. Journal of Manipulative and Physiological Therapeutics 1998: 21(8); 568-71. Fascicolo GSS 2/1999, pag. 179

Sembra una maledizione: e forse invece è solo il segno di un'auspicata transizione, nel campo della riabilitazione, da un empirico e rassegnato accontentarsi dell'esperienza e dell'autorevolezza delle fonti alla consapevolezza della necessità di dare basi solide al nostro operare quotidiano.

In ogni caso, sono sempre più frequenti nella letteratura mondiale resoconti di indagini impostate e condotte come Dio comanda che dimostrano l'inutilità, quando non la nocività, di pratiche diagnostiche e terapeutiche in uso, con conclamati attestati di efficacia, da molto tempo: ma in parte anche introdotte di recente e magari ampiamente diffuse, a riprova che grande è la capacità dell'uomo da un lato di proporre, dall'altro di accettare rimedi illusori.

Ecco una ulteriore riprova: quella che sembrava una per molti aspetti portentosa dote dei chiropratici, molto invidiata ad esempio dal povero medico generico alle prese con le difficoltà di una diagnosi in molti casi impossibile, la capacità di individuare attraverso la 'palpazione manuale' i disturbi del rachide e giustificare così il trattamento conseguente, non era che un'illusione. Numerosi studi dimostrano la fallacia dell'asserzione, e questo articolo trae dalla loro lettura le doverose conseguenze. Les dieux s'en vont!

La competenza e la chiarezza dell'articolo dei tre autori (a proposito, mi si perdoni la mia ignoranza, ma cosa vorrà dire il 'terapie fisiologiche' compreso nel titolo della rivista?) dovrebbero servire da stimolo per un maggiore impegno dei fisiatri italiani nella stessa direzione. Al recente congresso della Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitazione a Cagliari su più di duecento comunicazioni presentate cinquantasette riferivano sui risultati, in genere valutati buoni o ottimi, dell'utilizzazione di tecniche diagnostiche e di trattamenti nelle più svariate condizioni morbose: e questo è un bene. Non è affatto un bene, al contrario, che almeno alla lettura degli abstracts, solo due lavori e mezzo avrebbero superato le prove che giustamente nell'articolo sono considerate fondamentali per accertare la scientificità di un assunto.

Nella classificazione proposta dalle Mercy Guidelines dei chiropratici americani gli altri lavori avrebbero meritato un 'inappropriate' o al massimo un 'doubtful'. Con un'aggravante: dopo la proclamazione dei primi risultati, in genere favorevoli quando non entusiasmanti, presentati con la pressoché obbligata postilla: 'il numero di casi non e' sufficiente per affermare … per cui sono necessarie ulteriori indagini', molto molto raramente le 'ulteriori indagini' sono poi effettivamente condotte, dagli stessi autori o da altri che potrebbero sia confermare, sia falsificare le deduzioni del primo lavoro, certamente, almeno in un buon numero di casi, emesse in buona fede.

Interessanti sono anche le considerazioni presentate nell'articolo a proposito dei meccanismi che portano gli 'operatori' a utilizzare tecniche diagnostiche e trattamenti di cui non è dimostrata l'efficacia: o in molti casi è stata addirittura provata la non efficacia. Personalmente, sono purtroppo convinto che tra questi meccanismi occupi un posto preponderante, almeno da noi, l'aspetto … economico della faccenda, spesso incentivato dalle assurde disposizioni legislative in materia di retribuzione delle attività riabilitative.

Possiamo anche noi fisiatri chiedere alla nostra disciplina di 'essere logica e matura' di fronte alle prove che molte delle nostre procedure diagnostiche e terapeutiche sono 'unreliable and invalid'?


Effetto dell'affaticamento lombare sull'abilità di percepire una variazione di posizione lombare

Taimela S. Spine 1999: 24(13); 1322-27. Fascicolo GSS 4/2000, pag. 368

Tutte le volte che nel titolo di un lavoro sono presenti i termini "propriocettività", "senso di posizione" e similari cominciano i guai per il lettore mediamente informato.

Il lavoro di Taimela e coll., come sempre molto ben impostato e condotto, porta a conclusioni del tutto accettabili. I muscoli hanno un duplice ruolo all'entrata e all'uscita dei circuiti coinvolti nel controllo motorio sulla base delle informazioni provenienti dalla periferia ed è verosimile che la loro fatica determini delle turbe nel riconoscimento "cosciente" delle variazioni posturali. Ed è altrettanto e ancor più verosimile che il dolore cronico (a proposito, quale, dove, quanto nei diversi soggetti, al momento della prova?) possa modificare la percezione del cambiamento di posizione. Gli autori accennano a ipotesi interpretative del deficit di percezione che ritengono ancora da dimostrare. La cocontrazione muscolare di difesa antalgica può certamente modificare le informazioni in arrivo e partenza dai propriocettori muscolari. Ci sarebbe piuttosto da obiettare sull'opportunità di scegliere per il test un movimento sul piano trasversale del tronco, oltretutto ottenuto con la rotazione del bacino sul rachide, situazione ben rara nella vita di tutti i giorni anche se non nello slalom in sci. E non tutti ci riescono bene. E gli stessi autori affermano che i movimenti di rotazione risentono di modo diverso da quelli sul piano sagittale della fatica muscolare.

Degna di attenzione mi sembra l'affermazione, non sottolineata, della scarsa correlazione tra alterazione del riconoscimento dell'inizio del movimento di rotazione e gravità del dolore lombare, senso soggettivo di disabilità, mobilità lombare.

Ma il quesito fondamentale è sempre lo stesso: quale rapporto c'è tra la capacità di percezione "cosciente" della posizione e del movimento articolare e le possibilità di controllo "inconscio" degli stessi parametri. Quando, non tanto tempo fa, si pensava che i propriocettori articolari fossero in grado di segnalare soltanto i gradi estremi dell'ampiezza articolare era stato dimostrato che i riflessi a partenza articolare sono troppo lenti per proteggere a quel punto l'articolazione minacciata. E' immaginabile che il movimento - e in particolare il movimento veloce come sono spesso le variazioni della posizione della colonna in risposta alle sollecitazioni provenienti ad esempio dal cammino su terreno irregolare - possa essere controllato e regolato da risposte che impiegano qualche decimo di secondo per essere realizzate? D'altra parte è molto difficile pensare che nella programmazione del movimento le decisioni circa la stiffness delle singole articolazioni interessate (forse il più importante ruolo delle afferenze articolari tramite sistema gamma) e la sua variazione nel corso del movimento stesso vengano prese in base a una qualche forma di determinazione "cosciente".

Resta, per noi sfortunati riabilitatori, il dubbio esistenziale: ammesso che nel LBP cronico esista un deficit della propriocezione che può indurre rischi per una colonna mal difesa, cosa possiamo fare per migliorarla? Mi sembra improbabile che l'esercitazione propriocettiva, come per esempio quella realizzata con le tavolette di Freeman, possa aumentare il numero di recettori articolari o muscolari, non sappiamo fino a che punto la sollecitazione intensiva e ripetuta dei recettori sottoposti a stimoli eventualmente modificati ne migliori in qualche modo la sensibilità, non sappiamo fino a che punto l'arrivo alle stazioni più alte di un numero maggiore di informazioni possa determinare di per sé un miglioramento della capacità di scelta del SNC in funzione di più corretti comportamenti adattivi; non sappiamo se e come questi eventuali nuovi comportamenti vengano appresi e resi permanenti (è il grande mistero della "automatizzazione" degli schemi motori appresi); abbiamo molti dubbi che in questo lavoro di apprendimento di risposte nella loro essenza automatiche, l'intervento della coscienza, con gli importanti ritardi che implica nel processo di elaborazione delle informazioni, sia davvero un aiuto o piuttosto non sia un ostacolo, come è stato autorevolmente affermato. Insomma ci è terribilmente difficile confrontare, come dovremmo, con il meccanismo patogenetico della difficoltà di controllo del rachide postulato degli autori, un meccanismo di azione delle nostre tecniche rieducative ancora in gran parte misteriose. Fino a quando?


Una guida per l'uso e l'interpretazione dei dati elettromiografici chinesiologici

Soderberg GL, Knutson LM. Physical Therapy 2000: 80(5); 485-98. Fascicolo GSS 1/2001, pag. 92

E' segno dei tempi la comparsa su una rivista redatta da terapisti e destinata a terapisti di un articolo così rigoroso e esauriente su un argomento complesso e difficile come quello dell'acquisizione dei dati dell'elettromiografia dinamica (o cinesiologica). E' la riprova di alcuni importanti eventi che da qualche tempo possiamo osservare nel mondo della medicina riabilitativa. Prima di tutto, l'esigenza degli operatori di dare maggiore evidenza 'scientifica' ai loro interventi e alle loro tecniche: l'adattamento dei quali alle caratteristiche dell'alterazione da trattare, in particolare in funzione dei fattori patogenetici che questa alterazione comporta, è ovviamente premessa indispensabile alla bontà dell'outcome finale. Di qui una sempre maggiore attenzione alla qualità dell'osservazione del segno patologico e alla individuazione del 'profilo fisiopatologico' del danno prodotto dall'evento morboso. E' in questo senso che trova particolare rilievo la possibilità di trarre informazioni a volte decisive dall'analisi strumentale delle posture e dei movimenti, la cui utilizzazione si va gradatamente estendendo anche in Italia in modo soddisfacente. Ne è la riprova la fondazione nell'anno 2000 della Società Italiana di Analisi del Movimento in Clinica (sito web http://www.siamoc.it), che ha per scopo appunto l'allargamento del ponte che deve unire la complessa tecnologia sottesa all'analisi strumentale con il mondo dell'esperienza quotidiana, con i pazienti e con i loro problemi.

Di qui la richiesta degli operatori della macchina riabilitativa di strumenti idonei a meglio comprendere il senso delle informazioni, spesso espresse in termini per loro non abituali, contenute nei referti dei laboratori di analisi.

Tra queste assumono particolare importanza i dati desunti dall'esame elettromiografico dinamico, che registra gli interventi muscolari definendone la sequenza, il momento dell'intervento, la durata, e entro certi limiti l'intensità. Questi dati, soprattutto se correlati con i dati della cinematica e della dinamica acquisiti contestualmente, sono davvero preziosi ai fini dell'individuazione delle reali cause dell'alterazione, e quindi della impostazione e della conduzione del trattamento. Il tutto in perfetto accordo con l'attuale visione della medicina riabilitativa, che vede, anche nelle norme ufficiali, la stesura per ogni paziente di un progetto riabilitativo, i mezzi con i quali questi obiettivi possono esser raggiunti, l'approccio indispensabile ad ogni trattamento con probabilità di successo.

Purtroppo la complessità della tecnologia che consente una analisi strumentale affidabile fa sì che ancora oggi le difficoltà siano numerose, sul piano tecnico, della raccolta dei dati, della loro interpretazione e soprattutto della loro comunicazione, per non parlare del problema del costo delle attrezzature e del personale specializzato che le deve gestire. Sutherland afferma che le informazioni deducibili da una analisi strumentale sono numerosissime e preziose, ma le persone in grado di interpretarle e comunicarle in maniera utilizzabile a livello 'di palestra' sono ancora poche.

Il lavoro qui presentato va incontro a una di queste esigenze: la comprensione di come vanno raccolti i dati perché la loro utilizzazione possa essere utile. A questo proposito può essere di grande aiuto la recente pubblicazione dei risultati del progetto europeo SENIAM (Surface Electromyography for Non Invasive Assessment of Muscles), istituito per elaborare raccomandazioni per una standardizzazione delle strumentazioni e delle tecniche di raccolta dei dati, particolarmente importanti per l'elettromiografia dinamica. Molto importante ed utile, per noi, la traduzione italiana delle raccomandazioni pubblicata a cura di Roberto Merletti, direttore del Centro di Bioingegneria di Torino (istituito grazie alla collaborazione del Politecnico di Torino, dell'ASL 1 Piemonte, di alcune Fondazioni bancarie - sito web http//www.polito.it/centri/corep/bioing), coordinatore dell'apporto italiano alla ricerca e parte attiva e essenziale nella redazione della stesura del documento finale.

Un'ultima considerazione: è possibile che la seconda autrice del lavoro sia la deliziosa consorte di quel Knuttson che agli inizi degli anni 70 ci ha insegnato come uno stesso segno, in questo caso il recurvato nella fase centrale dell'appoggio di un cammino emiplegico, possa risalire a fattori patogenetici diversi, che richiedono necessariamente soluzioni terapeutiche diverse. Ottimo antidoto contro tutte le affermazioni 'globalizzanti' di gran parte della letteratura riabilitativa di quegli anni - e non solo di quegli anni.


La valutazione posturale contribuisce alla cura del paziente?

Sahrmann SA. J of Orthop & Sport Phys Ther 2002:32(8); 376-378. Fascicolo GSS 1/2003, pag. 92

Una delle poche soddisfazioni che la tarda età ci riserva è quella di veder confermare, a distanza di tempo, come perplessità che ci hanno afflitto molti anni prima non fossero prive di giustificazioni.

Nei primi anni sessanta, in un congresso di educatori fisici dedicato alla 'postura' mi sono creato non pochi nemici presentando una diapositiva che riportava una definizione del 'Nuovissimo dizionario della lingua italiana' che stabiliva l'equazione 'postura=impostura'. Ero molto irritato perché l'ottanta per cento di una modesta somma strappata all'assessorato regionale lombardo alla sanità era stato devoluto dal comune di Merone all'istituzione di corsi di ginnastica medica per 'i paramorfismi'. Si era in tempo elettorale, e i bambini erano più numerosi dei disabili.

Inoltre avevo appena finito di redigere un lungo elenco di affermazioni tratte da testi tecnici e 'scientifici', dove termini come postura e i suoi derivati erano utilizzati con tanti significati diversi e spesso contraddittori: in particolare l'aggettivo posturale, nelle locuzioni atteggiamento posturale (sic), controllo posturale, tono posturale, riflesso posturale, educazione posturale, rieducazione posturale … Mentre tutti i lavori seri (alcuni anche nostri) dimostravano l'estrema variabilità delle 'posture' individuali e, l'impossibilità assoluta di definire una 'postura ideale' da raggiungere con serie di lezioni, tanto più remunerative quanto più collettive. Postura ideale tra l'altro rilevata in una posizione di assoluta artificialità: non ho mai visto un bambino atteggiarsi sull'attenti se non per giocare o perché gli viene richiesto. E la Metheny ci avvertiva che in una 'postura' ognuno utilizza i suoi muscoli come più gli aggrada, in funzione dei suoi dati antropometrici e dei suoi obiettivi.

Per fortuna il termine 'paramorfismo', che pretendeva l'esistenza di qualcosa di definito in quella zona notoriamente indefinita di confine tra la 'normalità' e la patologia, ha poi fatto una fine ingloriosa.

Sharmann riconosce in questo lavoro le incertezze della letteratura, e ci conferma che ogni postura va definita con la descrizione dei rapporti tra i vari segmenti corporei in un atteggiamento mantenuto 'per un certo tempo': ovviamente tenendo conto del loro rapporto con lo spazio (gli angoli assoluti dei bioingegneri) e quindi con la gravità, rapporto dal quale dipende la selezione dei muscoli, o meglio delle unità motorie utilizzate per mantenerla.

Infinite posture, e quindi infinite posture ideali: ma dobbiamo anche precisare ideali rispetto a che cosa. Stabilità, sicurezza, funzione, estetica, espressività, e infine economia, non solo muscolare, ma anche di pressioni, specie articolari, e trazioni possono richiedere soluzioni 'ideali' diverse. Questo non vuol dire, naturalmente, che certe posture mantenute a lungo, soprattutto se complicate da carichi, non possano essere in qualche modo patogene. Le troveremo in caso di deformità, come le gravi scoliosi, che obbligano lavoro muscolare e carichi asimmetrici, e in alcuni gesti professionali, che non consentono variazioni nell'impegno muscolare e nella distribuzione dei carichi, delle pressioni e delle trazioni. Una certa esperienza con le lombalgie professionali, nell'ambito delle ricerche dell'EPM, l'unità di ricerca istituita dal Politecnico, dalla clinica del Lavoro e dal centro di bioingegneria di Milano, mi ha insegnato molto in questo senso.

Il fattore decisivo in questi casi è la durata della postura; il rimedio, quando possibile, è il frequente cambiamento di atteggiamento. Quante lombalgie mattutine al risveglio!



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