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I Punti di Vista


Il materiale scientifico presentato sul sito è indirizzato agli operatori del settore interessati alle patologie vertebrali. Per i pazienti le informazioni disponibili in queste pagine hanno solo un valore indicativo e non possono sostituire un parere medico.

 

Indice



Il punto di vista di Sibilla

Il trattamento conservativo della scoliosi idiopatica negli adolescenti
Wright A. - Phys. Ther. Rev. 1997: 2: 153-63.

Il lavoro di A. Wright del dipartimento di Fisioterapia dell'Università del Queensland – Australia, mi riporta allo stato dell'arte dell'inizio anni '70, quando abbiamo iniziato ad interessarci a tempo pieno delle deformità vertebrali.

Vi si evidenziano in maniera eclatante le differenze culturali e metodologiche della scuola statunitense e della scuola europea, segnatamente francese.

Infatti insieme ad evidenti dati di fatto ormai acquisiti e digeriti dai cultori della materia sull'evolutività, la frequenza, l'incidenza fra i sessi e così via, vi è una quasi ossessiva mitizzazione dei parametri in gradi Cobb, delle percentuali di trattamento, dei metodi di validazione ecc. che fanno molto “lecture” per congresso, ma hanno assai poco da spartire con la pratica clinica e con il management quotidiano dei pazienti cui prestare le nostre cure.

Alcuni passaggi poi fanno sorridere, come la critica della valutazione dei risultati con la comparazione di teleRx in corsetto, cosa che noi abbiamo bandito come inutile da più di un quarto di secolo.

La disamina dei metodi di cura è fatta su parametri terapeutici che consideriamo sicuramente superati e datati e comunque ritenuti da noi provatamente inefficaci per molti tipi di scoliosi come il corsetto di Milwaukee ed il derivante (con poca fantasia) Boston e la L.E.S.S. metodica che a nostro avviso è stata immolata sull'altare del business, senza coglierne i possibili indubbi vantaggi, che condivide con altri metodi di stimolazione quali: la S.P.E.S..

E qui arriviamo al duplice aspetto di questo lavoro: da un lato banalizzante le metodologie ortopediche con l'assunto di lavori anche condotti con metodo, ma basantisi su approcci discutibili, senza dare d'altro canto indicazioni precise su un possibile superamento di una descritta situazione di stallo.

Questo può indurre, e ne abbiamo già colto gli echi nella stampa nostrana, persone anche in buona fede, ma carenti di spessore clinico, a formulare giudizi superficiali e fuorvianti per il grande pubblico, creando così della disinformazione.

E' questo comunque un argomento che riteniamo centrale nel trattamento delle deformità del rachide. Non è possibile quindi liquidarlo in poche righe.

Vi ritorneremo perciò con una pubblicazione più articolata su queste stesse pagine, prossimamente.

Tanto dobbiamo alla serietà dell'Autore ed al suo impegno anche se non condividiamo le sue deduzioni, ci perdonino gli amici, decisamente troppo fisiatriche.


Il punto di vista di Boccardi

Lombalgia: un enigma per la sanità nel ventesimo secolo
Waddel G. - Spine 1996: 21(24): 2820-5.

E' ora che anche i medici italiani si confrontino con il quesito che pervade tutto l'accorato articolo di Waddel, grande esperto del LBP, autorevolmente supportato dal lavoro di Deyo, altro grande esperto dell'argomento, pubblicato nello stesso numero di Spine: come mai, quando gli studi che dimostrano l'assurdità, non scevra di conseguenze dannose per gli individui e la comunità, del comportamento della medicina, ufficiale e non, nei confronti di questo diffusissimo problema hanno raggiunto da tempo il volume critico, si continua a prescrivere i soliti inutili e costosi esami, a comunicare al paziente le solite vaghe e spesso incomprensibili diagnosi, a praticare le solite inefficaci e costose terapie?

Non c'è dubbio che la realtà italiana penda più dal lato della situazione che Waddel descrive per gli Usa che di quella del Regno Unito: almeno di quella registrata dal National Health Service, che a quanto pare, comunque, soddisfa solo una percentuale ridotta degli utenti. E' alta anche in Italia la frequenza con cui vengono prescritti dal medico di base esami costosi, talora non innocui e raramente necessari, che producono referti troppo spesso inutilmente non rassicuranti; è di solito eccessivamente precoce l'invio allo specialista, quasi sempre ortopedico, il quale a sua volta richiederà gli esami non ancora richiesti dal medico di base; è abituale l'uso di una terminologia poco significativa, spesso poco chiara e talvolta preoccupante nella comunicazione al paziente, la cui vulnerabilità è stata ben sottolineata da Hadler in un articolo anch'esso tradotto dalla benemerita pubblicazione del GSS: spondilodiscoartrosi, disco degenerato, sublussazione vertebrale; è pressochè immediato l'invio a terapie fisiche, la cui inutilità è oramai ampiamente dimostrata e che saranno rinnovate poi sulla base di “dieci marconi due volte all'anno”, anche nei casi di completa remissione della sintomatologia “a scopo preventivo”; e forse, infine, si opera ancora troppo spesso. Il tutto con una spesa altissima per la comunità, e crescente in progressione esponenziale.

Tutto questo quando in tutto il mondo si è d'accordo su quanto asseriscono le linee guida pubblicate in Usa, nel Regno Unito, in Australia, nel Canada, in Svezia. Nelle lombalgie “non specifiche”, che costituiscono oltre l'80% delle forme che si presentano alla visita, quello che veramente serve è la rassicurazione psicologica del paziente, è la richiesta di un impegno ad una moderata attività fisica, sono i consigli sull'ergonomia e su un cambiamento dello stile di vita, che richiedono: una efficace opera di persuasione da parte del medico. Sono perfettamente d'accordo sulle conclusioni: è il medico di base che deve assumersi la presa in carico del paziente, offrirgli la necessaria comprensione e fare da filtro sia per la scelta degli esami che per l'invio allo specialista. Il che vuol dire offrire una soluzione corretta alla natura “biopsicosociale”, come dice Waddel, del problema LBP (e se tornassimo a chiamarlo mal di schiena?).

Ed ecco il nodo di ardua soluzione: i quindici minuti in media della visita ambulatoriale del medico di base (ammesso che in Italia questa media non sia ancora più bassa, come viene fatto di ritenere in base all'esperienza quotidiana) sono sufficienti per un'operazione così onerosa in termini di impegno personale? Ma d'altra parte possiamo continuare ad accettare e a ritenere dignitoso che venti minuti di ultrasuoni ad apparecchio spento o di ionoforesi a polarità invertite, come numerose ricerche attestano, siano più efficaci di una visita del proprio medico curante?


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